Pubblicato: Mercoledì, 12 Giugno 2024 - Flavia Santangeli

ROCCA DI PAPA (attualità) - Una storia che arriva da una Rocca di Papa lontana

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Le tradizioni e le usanze, tramandate da una generazione all'altra, rappresentano una testimonianza viva della cultura di una determinata comunità, di cui ne accrescono anche il senso di appartenenza.

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A Rocca di Papa negli anni Venti i ragazzi adolescenti lavoravano tutti, a parte i pochissimi che avevano avuto il privilegio di poter studiare in collegio o in seminario. Le ragazze, invece, si dividevano in due gruppi, non troppo rigidi. Quelle nate in famiglie abbienti trascorrevano molte ore della giornata a ricamare dalle suore, presso i due Istituti delle Maestre Pie Filippine e delle Suore d’Ivrea, preparando il corredo nuziale con le grandi cifre del loro nome e cognome.

I capi di biancheria, una volta terminati, venivano riposti in quelli che venivano chiamati cassoni, ovvero delle grandi casse, una sorta di bauli. Le meno fortunate andavano in campagna, o nei propri terreni sotto padrone, ma nei periodi di scarso lavoro riuscivano anch’esse a imparare, con mani ruvide e incerte, i principali punti di ricamo, come viene riportato nel libro di Maria Pia Santangeli, Rocca di Papa al tempo della crespigna e dei sugamèle, Roma, 1° ristampa Edilazio, 2003. In entrambi gli istituti la scuola di ricamo era gratuita, venivano acquistate la stoffa, il filo e il disegno; l’insegnamento delle suore veniva liberamente ricompensato con del grano, granturco e altri prodotti della terra, dal momento che questa attività era considerata importante per l’educazione della donna, come segno di civiltà e agiatezza.

Con la giovinezza si iniziava a pensare all’amore e allo stesso tempo al matrimonio, che quasi per tutti erano sinonimi.

Le giovani, seppur in gruppo, andavano in campagna e nei boschi e, più volte al giorno, attingevano acqua dalle varie fontane del paese. Se volevano avere maggiori opportunità di guardare qualcuno e di farsi ammirare a loro volta, non facevano altro che andare a casa, buttare l’acqua e tornare indietro. Se poi alla fontana volevano farsi aiutare da un uomo a issare la conca sulla corója (il cercine), ben sistemata sulla testa, dovevano semplicemente dire: Che me ‘mpóni?”, “Che me ‘iùti a ‘mpóne?”

Nelle ore serali, quasi tutte le donne lasciavano le loro faccende per recarsi in chiesa alla recita del rosario. Poi le più giovani, genitori permettendo, andavano a spasso in piazza Garibaldi, detta piazza dell’Erba, percorrendo l'attuale via Gramsci e una parte di viale Madonna del Tufo.

A questo punto la scrittrice cita un aneddoto che, suscitando una certa ilarità, ricorderanno molti roccheggiani: l’illuminazione elettrica terminava poco dopo il Belvedere con una lampada più grande delle altre, denominata ‘a palla simpatica. Più avanti la strada era immersa nell’oscurità. Il buio che vi regnava non deponeva a favore della moralità delle giovani donne che s’inoltravano in quel tratto di strada. Le malelingue avevano di che spettegolare: “A’ vistu chélla… la fìa de… à trapassatu ‘a palla simpatica!” (Hai visto quella… la figlia di… ha oltrepassato la palla simpatica!). “M’àu dettu che t’àu vistu de trapassà ‘a palla simpatica!”.

Ad ogni modo la strada restava per i giovani il luogo più comune d’incontro, dove avvenivano solitamente le dichiarazioni d’amore o meglio le richieste di fidanzamento.

Nel momento in cui la ragazza aveva acconsentito, il silenzio della notte veniva interrotto dalle serenate con un mandolino, una chitarra e una voce solista che allietavano di quando in quando i diversi rioni.

Le frasi d’amore venivano dunque affidate principalmente alle serenate, nelle cui parole gli ardenti innamorati riconoscevano il proprio sentire…

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