19 Maggio 1956: l'inizio dell’Autostrada del Sole. E l'Italia non fu più come prima
Pubblicato: Domenica, 19 Maggio 2024 - Fabrizio GiustiACCADDE OGGI – La realizzazione fu completata in otto anni, in anticipo con i tempi. Un simbolo che unì la nazione in termini materiali dopo le rovine della guerra
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“Oggi alle 17, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi - di ritorno dalla Svizzera dove ha presenziato alle celebrazioni per il cinquantesimo del Traforo del Sempione - ha consacrato l'inizio di un'altra grande impresa destinata al progresso delle comunicazioni: l'autostrada Milano-Napoli. La cerimonia della posa della prima pietra è avvenuta presso San Donato Milanese alla presenza anche dei Ministri dei Lavori Pubblici e dei Trasporti, Romita e Angelini”. 19 Maggio 1956.
Con queste parole piene di orgoglio agenzie, radiogiornali e telegiornali italiani commentarono quel che era accaduto poche ore prima. L’Italia, con l'inizio dei lavori della A1, stava compiendo un passo poderoso verso la sua trasformazione economica e la coscienza di ciò che stava accedendo aleggiava nell’aria in una nazione che aveva preso seriamente a correre a poco più di dieci anni dal rovinoso secondo conflitto mondiale.
Era ancora la nazione di Don Camillo e Peppone, raccontati suggestivamente dalla penna di Giovanni Guareschi, che ascoltava ‘Blues Suede Shoes’ di Elvis Presley ma anche Nilla Pizzi, Luciano Tajoli e Gino Latilla. Il 'volare' di Domenico Modugno era lì alle porte e al cinema si vedevano film come ‘La banda degli onesti’ con Totò, 'Il Gigante' con James Dean, 'Il ferroviere' di Germi e il fantascientifico 'L’Invasione degli ultracorpi', dove si narrava di replicanti sulla terra. E in effetti, a pensarci bene, l’Italia di quegli anni era divisa perfettamente in due, sdoppiata per l’appunto, tra modernità e tradizione, tra mondo rurale che regrediva inesorabilmente e mondo industriale che emergeva, tra vecchie e nuove canzoni, tra superstizioni arcaiche e abbandono nella realtà e nel futuro, tra nord lanciato verso nuove prospettive e un sud sempre arrancante e pieno di giovani pronti ancora ad emigrare verso le capitali economiche: Milano e Torino.
L’Austostrada del Sole, nella sua impronta filosofica, voleva rivoluzionare la vita degli italiani. Questo era l’intento, questo fece. Un’opera che non ebbe paure in un’epoca in cui ancora si scommetteva sulle infrastrutture senza grossi timori di sperperi o ritardi.
755 km complessivi, l’unità materiale di una nazione lungo una enorme striscia di asfalto capace di congiungere Milano a Napoli, passando per Bologna, Firenze e Roma. A oggi l’impresa rappresenta il più grande risultato raggiunto dall'Italia del 'boom' del dopoguerra. Un'opera realizzata a tempi di record, all'avanguardia per concezione e tecnologia.
La posa della prima pietra, come detto, arrivò il 19 maggio 1956, mentre l'inaugurazione dei primi tronchi, tra Milano e Piacenza nord e tra Piacenza sud e Parma, vedrà la luce l'8 dicembre 1958.
L’A1 fu pensata nella stanza di Salvino Sernesi, allora direttore generale dell’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale) in via Veneto numero 89 a Roma. A Felice Cova fu affidata la direzione tecnica dell’opera da 272 miliardi di vecchie lire. Il risultato fu stupefacente (a guardarlo con gli occhi del presente): otto anni di lavori e consegna terminale dell’intera opera con tre mesi di anticipo. Un capolavoro da 'sistema Paese', si direbbe oggi, un’infrastruttura di straordinario valore che rovesciò in un intervento pubblico due obiettivi strategici, uno di natura politica ed economica e l’altro di coesione sociale. Fu l'affermazione di un primato e di un disegno socio-politico che non si esauriva solo sul concetto di una nuova mobilità o di un nuovo processo di scambi. Amintore Fanfani, proprio per questi motivi, affermò: "Adesso l’Italia non è più divisa in due".
Fondata su 400 ponti, 38 gallerie, 15 milioni di giornate lavorative, l'opera pagò anche il tributo di 74 morti sui cantieri, poco ricordati dalla letteratura di quel periodo, ma fu parallelamente il simbolo della crescita economica applicata agli investimenti pubblici e il raggiungimento di un traguardo comune. Pochi anni dopo iniziò l'epoca dei cosiddetti 'status symbol': l’auto, il frigorifero, la Vespa, la cucina nuova. Una trasformazione antropologica con pregi sul piano del benessere e difetti sul livello dello sviluppo culturale e comunitario. Costumi e stili di vita cambiarono radicalmente. Anche perché, nelle case, si era aggiunto un elettrodomestico rivoluzionario: la televisione. Un territorio di ex contadini, nel 1964, quando l’opera fu completata, iniziò a fare il verso alle pubblicità - diventate di linguaggio comune - e a parlare come suggeriva il piccolo schermo, scoprendo simultaneamente il primato del 'Made in Italy'. In mezzo le Olimpiadi di Roma, le prime dell'epoca moderna, quelle del 1960, ovvero la definitiva consacrazione dell'immagine del rilancio sul piano mondiale.
Un cambiamento percepito, dunque, senza più eguali nella storia italiana del dopoguerra, in un clima ricco di contraddizioni, ma dove il futuro non spaventava. Era la fiducia, in quegli anni di profonda mutazione, a vestire l’habitat mentale di un popolo che ormai vedeva nello sviluppo, non conoscendone i contraccolpi, la base ad ogni ragionamento per guardare con speranza all'avvenire delle generazioni. E con una classe dirigente che, va detto, aveva compreso tutta l’ambizione di una collettività che era stato umiliata solo poco tempo prima e che riscontrava, in un'opera pubblica di enormi dimensioni, la luce per scolpire la sua esistenza.