Il 4 novembre, l’Italia, la ‘guerra vinta’ e quel ragazzo sconosciuto che unì un popolo

Pubblicato: Venerdì, 04 Novembre 2022 - redazione attualità

ACCADDE OGGI – Gli anni turbolenti  e bui che segnarono anche la costituzione ufficiale di un popolo e il suo riscatto

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Il generale Armando Diaz, capo di stato maggiore dell’esercito, il 4 Novembre del 1918 telegrafò: La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re Duce Supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta”. Poche parole, per raccontare la storia di un massacro e di un triennio di sconfitte e vittorie, di una generazione perduta e di un tributo che costò solo all’Italia oltre 600mila morti con un numero abnorme di dispersi, di corpi mai più ritrovati, di lutti familiari, di sofferenza, fame, esodi.

Un’intera nazione tornò dal fronte non solo cambiata nel carattere, ma anche politicamente, moralmente. Pochi anni dopo sarà l’avvento del Fascismo a sintetizzare la mutazione di un popolo che si era visto quasi disperso dopo Caporetto, poi esaltato dalla Vittoria e infine tradito dai patti tra le nazioni vincitrici. Fu un periodo di grande fermento e della scoperta di quel senso della Patria fino ad allora solo ipotizzato, immaginato. Un sentimento, quest’ultimo, che proprio durante la guerra aveva trovato il suo sfogo, la sua maturazione, a poco più di 50 anni dall’unificazione nazionale.

Una nazione giovane aveva bisogno di simboli e di date per avere dei riferimenti comuni. Così, nel 1921, nel corso della primavera ad un colonnello d’artiglieria, Giulio Douhet, venne in mente, dalle colonne del suo settimanale, ‘Il Dovere’, di lanciare un’idea: ricordare il sacrificio di tutti i fanti nella salma di un soldato rimasto senza nome, che rappresenti idealmente il marito, il figlio, il padre di quanti non avevano fatto ritorno a casa. La proposta divenne legge in breve tempo. Il ministro Gasparotto, incaricato del procedimento, emanò le prime disposizioni organizzative istituendo una commissione ad hoc per tributare al corpo di un caduto in combattimento sul fronte italiano tra il 1915 e il 1918 il maggior valore possibile attraverso l’esumazione di una salma, una cerimonia nella basilica di Aquileia e il trasferimento a Roma mediante uno speciale convoglio ferroviario.

Le ricerche dei corpi furono condotte nei tratti più avanzati dei principali campi di battaglia: San Michele, Gorizia, Monfalcone, Cadore, Alto Isonzo, Asiago, Tonale, Monte Grappa, Montello, Pasubio e Capo Sile. Lì dove Giuseppe Ungaretti trovò le sue sofferenti e straordinarie parole per spiegare il dolore e la vita di un soldato comune, una nazione decise di trovare il suo martire, da scegliere tra undici vittime.

Per dare l’idea della misura della tragedia della Grande Guerra basta recarsi nel cimitero di guerra di Lizzana, sul Colle di Castel Dante, vicino a Rovereto. Vi sono tumulati 11.455 soldati provenienti da circa 200 cimiteri più piccoli. Di queste, circa 6mila appartengono a ignoti. Questo perché nel corso del conflitto i caduti venivano tumulati in piccoli camposanti allestiti alla bene e meglio a ridosso delle trincee. I cadaveri, sepolti nella terra nuda, erano spesso ammassati in fosse comuni.

La commissione incaricata di eseguire i procedimenti per la tumulazione del soldato senza nome scelse quindi una donna, a cui fu affidato il compito di designare, tra le undici salme, il 'Milite ignoto'. Inizialmente la scelta cadde su Anna Visentini Feruglio, madre di due figli dispersi in guerra. Poi si decise di far prevalere il concetto che la donna fosse del popolo. Il compito toccò così a Maria Bergamas, di Gradisca d’Isonzo, madre dell’irredento Antonio Bergamas, sottotenente decorato di Medaglia d’argento al valor militare, caduto sul monte Cimone il 18 giugno 1916.

Antonio era uno dei stato uno dei duemila volontari partiti da Trento e Trieste per combattere con gli italiani, contro gli austriaci, da sudditi dell'impero. Arruolato nel 137° reggimento di fanteria della brigata Barletta con il nome di guerra di Antonio Bontempelli, il giorno prima di morire si era offerto volontario per guidare l’attacco ai reticolati nemici. Morì raggiunto da una raffica di mitraglia nel corso delle operazioni. Nelle sue tasche venne rinvenuto un pezzo di carta: “In caso di mia morte – vi era scritto - avvertire il sindaco di San Giovanni di Manzano, cav. Desiderio Molinari”. La salma del giovane era stata sepolta nel cimitero di guerra delle Marcesine sull’Altipiano dei Sette Comuni. Il piccolo camposanto fu però squassato da un bombardamento che non permise più, successivamente, il riconoscimento delle sepolture. Da quel momento di Antonio Bergamas e dei suoi resti non se n’era saputo più nulla.

Prima di partire per il fronte, Antonio aveva scritto: Domani partirò per chissà dove, quasi certo per andare alla morte. Quando tu riceverai questa mia (la lettera era indirizzata alla madre ndr), io non sarò più. Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia. Perdonami dell’immenso dolore ch’io ti reco e di quello ch’io reco al padre mio e a mia sorella, ma, credilo, mi riesce le mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese natale, al mare nostro, per la Patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della Galizia o in quelli sassosi della Serbia, per una Patria che non era la mia e che io odiavo. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio”.

Venerdì 28 ottobre 1921 si celebrò dunque il rito di suffragio ad Aquileia.

Già alle prime ore del giorno una folla immensa invase il piazzale antistante la basilica, all’interno della quale furono esposte le undici salme di caduti della Grande guerra non identificati. Al termine della commossa cerimonia funebre di suffragio, dopo che l’officiante si era occupato di benedire le bare con l’acqua del Timavo, quattro decorati di Medaglia d’oro si avvicinarono a Maria Bergamas e la accompagnarono ai feretri. Sola, di fronte alle casse di legno, girò lo sguardo alle altre mamme. Giunse alla penultima bara. Emise un grido che squarciò il silenzio del tempio, invocando il nome del figlio. Poi si inginocchiò, abbracciando il feretro. Sul sagrato del tempio, la banda della brigata Sassari intonò per la prima volta l’inno che sarebbe divenuto il simbolo di tutte le cerimonie dedicate ai caduti: ‘La leggenda del Piave', scritta nel 1918 da Giovanni Gaeta, noto con lo pseudonimo di E. A. Mario, grande paroliere e compositore, che si ispirò per la sua canzone alle missive provenienti dal fronte che leggeva, da impiegato postale, in quegli anni. Il brano, composto nel 1918, era entrato nelle trincee dei soldati e aveva contribuito a ridare morale alle truppe, tant'è che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all'autore nel quale sosteneva: "La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!”

La salma prescelta da Maria Bergamas venne sollevata da quattro decorati e la cassa venne posta all’interno di un altro contenitore in legno massiccio. Sul coperchio fu posta la medaglia commemorativa fatta coniare dai comuni di Udine, Gorizia e Aquileia e una alabarda in argento, dono della città di Trieste.

Il 28 ottobre 1921 il sarcofago venne posto su un fusto di cannone trainato da sei cavalli bianchi bardati a lutto. Il feretro fu immesso nel convoglio speciale, che partì in un lungo viaggio per Roma. Lungo tutto il percorso il popolo lo attese, di stazione in stazione, lungo i binari, durante il tragitto. Un rito collettivo, per qualcuno la più grande manifestazione patriottica della storia italiana. Il treno si fermò in 120 volte, in città e paesi. Arrivò dopo quattro giorni nella capitale adornato da oltre 1.500 corone a bordo e un mare di fiori.

La sepoltura presso il Vittoriano, da quel momento, assunse un preciso significato e cambiò anche il destino del monumento. Per disposizione del governo in tutti i comuni del Regno alla stessa ora venne sospeso qualsiasi lavoro. Un lungo corteo attraversò il cuore della Capitale. Al seguito carabinieri a cavallo, l’esercito e marina, ascari eritrei e libici del Corpo delle truppe coloniali, Guardie di finanza e agenti di Pubblica sicurezza, 753 tra bandiere e labari di unità militari e gonfaloni dei comuni decorati al valor militare, infine un blocco di 1800 bandiere delle associazioni combattentistiche. La folla, da piazza Esedra, si snodò lungo via Nazionale per giungere nella piazza Venezia. Due decorati, precedendo la bara, apposero la corona d’alloro fatta allestire dal Re. Altri otto portarono a spalla il feretro. Sotto la statua della Dea Roma, le regine e le principesse si misero in ginocchio. Il sarcofago venne inserito dietro la pietra tombale.

Fu così che l’Italia trovò, nei poveri resti di un ragazzo, simbolo di un’intera generazione, la traccia perenne di un sacrificio. In una nazione per una volta unita, nel ricordo, mentre i conflitti sociali erano già drammaticamente in corso e scriveranno altre pagine di storia subito appresso. Appena un anno dopo, infatti, Benito Mussolini sarà nominato Capo del Governo dopo la Marcia su Roma.