Fabrizio De André e le sue immortali parole di libertà
Pubblicato: Martedì, 11 Gennaio 2022 - Fabrizio Giusti
ACCADDE OGGI – La morte del cantautore genovese, l’11 gennaio 1999. Un riferimento culturale intramontabile
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Ci sono artisti che in vita sono molto amati, ma poi vengono stranamente dimenticati. Ce ne sono altri che invece rafforzano la loro memoria malgrado gli anni che passano, diventando testimonianza di generazione in generazione, andando oltre la morte.
Sono individui indissolubili, quasi fossero un bene necessario. Come l’acqua e il pane.
Fabrizio De Andrè è rimasto tra i vicoli, nelle strade, nelle radio, sui social, sui nuovi mezzi di comunicazione, tra i giovani di oggi e i ragazzi della sua generazione che nel frattempo sono diventati adulti e nonni.
Bertold Brecht, in una frase indovinata, affermava: “Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli imprescindibili”.
“Bocca di Rosa”, “Via del Campo”, “Rimini”, “Il Pescatore”, “Il testamento di Tito”, “Hotel Supramonte”, "Il suonatore Jones", “Fiume Sand Creek”, “La città vecchia”, “Crueza de mà”. Tante canzoni del cantautore genovese sono nell’elenco dei capolavori della musica italiana e della poesia. De Andrè sapeva parlare degli ultimi, d’amore e della morte, portava sulle corde della sua chitarra gli umili, i disperati, i perdenti, portava la libertà più raffinata e inafferrabile: pensare.
La sua è la storia particolare ad affascinante di un figlio della buona borghesia che salta il fosso e si interessa di quelli che stanno dall’altra parte de fiume, i più emarginati e sconosciuti. Fu un ribelle che non ebbe mai una simpatia per le istituzioni, non avulso, in giovinezza, dalle risse che scoppiavano nelle bettole dei 'carruggi' in cui andava con i suoi amici e l'amico Paolo Villaggio. L'ascolto di Georges Brassens, il jazz, Luigi Tenco.
Tante tappe: arricchimento personale e di vita.
La sua forza, aiutata da una capacità di scrittura unica e da una voce tra le più importanti della storia della musica mondiale, è stato capace di farsi amare da molti non facendosi al contempo condizionare dalle leggi del mercato discografico, dagli ammiccamenti di stile. Ha cercato di mettere insieme arte e vita, vita e arte, in un percorso individuale persino complesso e difficile. Ma ciò che è rimasto, ovvero la famosa traccia che tutti tentano di lasciare nel passaggio terreno, è una grande ed immensa narrazione musicale e di versi che probabilmente sarà difficile rivedere in Italia. Una traccia che ha influenzato letterati, cantanti, uomini e donne di ogni età. Ha attirato tanti sguardi randagi e questo è un punto di grande rottura con la tradizione musicale nostrana.
La sua storia si è interrotta l’11 gennaio 1999 all’Istituto tumori di Milano. A 59 anni. Ma dietro di sé, fortunatamente, aveva lasciato un’eredità artistica inarrivabile, cantata da Mina e giunta fino alla world music.
Anche per un talento puro come il suo, prima di arrivare al pubblico, abituato anche allora su ben altri stereotipi, ci volle una scintilla: “La canzone di Marinella”, scritta quando era un adolescente e che proprio Mina portò al successo, tanto da far dire allo stesso De Andrè che senza quel passaggio sarebbe stato solo “un pessimo avvocato”. E’ quello il periodo in cui le influenze di Brassens, di Cohen, di Dylan lo attraversano. “La guerra di Piero” è ancora oggi un inno contro la guerra.
Un tesoro culturale, il suo, che parte da lontano. Prende respiro tra il popolo, tra gli invisibili, e si allarga fino alla grande letteratura mondiale. Tutto ciò in un ambito personale che non era semplice.
De Andrè era irriverente, spigoloso, con i suoi vizi, ma anche artisticamente ed umanamente generoso, capace di tradurre appieno le sue sofferenze. Seppur anarchico, fu ascoltato nella Chiesa del secondo Concilio. La sua traduzione dei ‘Vangeli apocrifi’ su “La buona Novella” è una delle più grandi idee del Novecento. In quel disco, nato mentre intorno scoppiava la rivolta giovanile e la contestazione generale, c’è un brano senza tempo: “Il testamento di Tito”.
Tito, secondo la testimonianza del vangelo apocrifo (Il Vangelo arabo dell'infanzia), era uno dei due ladroni crocifissi assieme a Gesù (l'altro si chiamava "Dimaco"). In questo brano, il ''brigante'' che andrà nel regno dei cieli assieme al Nazareno svela il suo pensiero sui dogmi e le imposizioni in nome di un Dio astratto e creato dagli uomini che ne utilizzano il senso e la grandezza per organizzare il potere.
Tito, prima di morire esattamente come Gesù, scopre allo stesso tempo l'amore di chi si è sacrificato per gli altri. La canzone, al di là della lettura religiosa, è la scoperta della contraddizione di chi fa le leggi, a volte a suo uso e consumo, anche per non rispettarle. Ed è la realizzazione concreta di chi queste leggi è obbligato a rispettarle, perché il potere lo deve subire. Tanti anni sono passati. Eppure questo rimane uno dei più grandi capolavori mai ascoltati. Musica e parole, in questo caso, non sono solo un momento di intrattenimento, ma un manifesto politico e intellettuale sempre attuale e da cui imparare per difendersi meglio, al di là delle proprie opinioni ed appartenenze.
De Andrè, per queste intuizioni e questi argomenti, è sempre stato oltre i tempi, non ha mai copiato, ha raccolto semmai le atmosfere in cui si immergeva e le ha riorganizzate, personalizzate, trasformate secondo la sua esigenza di uomo e di artista. Addentrasi dentro un’operazione complicata come l’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, è l’esempio di questo concetto. Canzoni che addirittura valorizzarono l’originale, così come affermato anche dalla sua grande amica Fernanda Pivano , straordinaria traduttrice e divulgatrice della grande letteratura americana della ‘baet generation’, ma anche di Hemingway, dello stesso Edgar Lee Master. “Non al denaro non all’amore né al cielo” è uno dei passaggi fondamentali per conoscere la differenza che passa tra un semplice autore di talento e un traghettatore di anime.
Questo perché De Andrè è stato in grado capace di leggere l’altra parte della sponda, rimettendosi in gioco. Quando fu rapito dall’Anonima Sarda, il 27 agosto 1979 con la moglie Dori Ghezzi, visse un’esperienza ovviamente drammatica. Ma risalendo dagli inferi, giunse il perdono per i sequestratori e nacque ‘Hotel Supramonte’. Più in là, mentre il mercato discografico trovava altri riferimenti e la stagione dell’impegno era finita, lui si gettò “Crueza de mà” e ‘Anime salve’
E’ passato per Brassens, Cecco Angiolieri, Arthur Rimbaud, i Vangeli apocrifi (scelti perché – come disse -” erano una versione laica della storia di quell’eroe rivoluzionario che era Cristo“), Edgar Lee Masters. Bob Dylan. Baudelaire, Leonard Cohen, Aristofane, le influenze politiche giovanili di Bakunin, Max Stirner e il suo 'L'Unico e la sua proprietà’. Se cercate un pezzo di autobiografia sincera lo troverete in ‘Amico fragile’, sui cui commentò: “La canzone più importante che abbia mai scritto, sicuramente quella che più mi appartiene. È un pezzo della mia vita: ho raccontato un artista che sa di essere utile agli altri, eppure fallisce il suo compito quando la gente non si rende più conto di avere bisogno degli artisti“.
Un giorno, in un'intervista, disse: "Benedetto Croce diceva che fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei considerarmi un cantautore". Fernanda Pivano, che di fuoriclasse autentici ne aveva conosciuti tanti, su questo non aveva dubbi. Per lei De Andrè era il più grande poeta del '900. Sicuramente è stato l'ultimo grande riferimento culturale della nostra tradizione letteraria e musicale.
Se ne andò prima che il nuovo millennio vedesse la luce, corse a ‘vedere il colore del vento’, come ne “Il sogno di Maria”. Come proferì Brecht, egli fu un imprescindibile. Ancora oggi amato e giustamente celebrato.