Giovanni Papini, l’irrequietezza e la conversione di un autore imprevedibile e ‘scorretto’

Pubblicato: Domenica, 09 Gennaio 2022 - Fabrizio Giusti

 

ACCADDE OGGI – Nasce il 9 gennaio 1881 uno degli autori più controversi. Stimato da Jorges Luis Borges ed Henry Miller, oggi poco ricordato

ilmamilio.it

Nazionalista, futurista, ateo, antclericale, filofascista, poi convertito e cattolico. Giovanni Papini ebbe vita da autore controverso, ma anche stimato da Borges ed Henry Miller, da Prezzolini ed altri letterati che in lui vedevano un abile polemista e un grande scrittore.

Nato a Firenze il 9 gennaio 1881, passò nell’arco della sua esistenza dal Manifesto Futurista al Vangelo in un viaggio singolare e ‘politicamente scorretto’ (si direbbe oggi).

Nacque in una famiglia artigiana. Luigi Papini, suo padre, era un ex garibaldino e ateo. Sua madre, Erminia Cardini, lo fece battezzare all'insaputa del coniuge. Forse già dall’inizio si doveva capire che Giovanni non sarebbe stato ‘uno qualunque’. Sin da giovanissimo è gran lettore e organizzatore culturale.

Nel 1900 insieme a Giuseppe Prezzolini (Leggi: Giuseppe Prezzolini, il conservatore-anarchico che aveva capito gli italiani ), formando un’associazione di spiriti liberi, fa nascere il programma de "Il Leonardo", rivista fondata con l'obiettivo di stravolgere la cultura accademica italiana, i suoi meccanismi, gli stereotipi. Nello stesso periodo Papini è redattore de "Il Regno" di Enrico Corradini, organo del partito nazionalista, ed esordisce come narratore con "Il tragico quotidiano" (1903), e "Il pilota cieco" (1907). L’esperienza del ‘Leonardo' è per Giovanni formante. E’ una rivista appositamente combattiva. La "guerra a tutte le accademie fra i muri di un'accademia", anticipando i futuristi, fu uno dei segnali di un cambiamento che da lì a poco si sarebbe fatto più radicale.

Sono anni di fermento, di conoscenza, di studi. Nel 1906 pubblica il saggio ‘Il crepuscolo dei filosofi’ dove autori come Kant, Hegel, Schopenhauer e Nietzsche vengono messi in discussione, dichiarando la morte della filosofia. Si sposò con Giacinta Giovagnoli e nacque la prima figlia, Viola. Nel 1910 ne ebbe una seconda, Gioconda. Nel 1908, sempre con Prezzolini, fonda La Voce, una delle più importanti riviste culturali del Novecento, che attraverso in diverse fasi continuò le sue pubblicazioni fino al 1916. Tra le firme più importanti sono da citare quelle di Gaetano Salvemini (che si dissociò dalla rivista nel periodo della guerra di Libia), Ardengo Soffici, Emilio Cecchi, Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Roberto Longhi, Romolo Murri, Giani Stuparich, Sibilla Aleramo e Margherita Sarfatti. Da Mussolini al futuro Paolo VI ne furono lettori interessati. Dalle stesse pagine, Papini scriverà: “Per l'uomo di vent'anni ogni anziano è il nemico; ogni idea è sospetta; ogni grand'uomo è da rimettere sotto processo e la storia passata sembra una lunga notte rotta da lampi, un'attesa grigia e impaziente, un eterno crepuscolo di quel mattino che sorge ora finalmente con noi”.

In quegli anni Papini è ovunque, condivide con Giovanni Amendola la breve esperienza di una rivista di tendenza teosofica, L'Anima, e nel 1912 pubblica ‘Le memorie d'Iddio’, dove la sua critica al cristianesimo e il suo nichilismo emergono nella descrizione di un Dio che si augura la morte della fede, pentito di aver creato così tanto male nel mondo. Erano tempi di censura e di scandali facili. Il testo gli procurò un processo per oltraggio alla religione. Quando si convertì, chiese alla figlia di incendiarne le copie ancora esistenti.

L’autore fiorentino è anche un uomo che conosce la politica e ne scrive. Se ‘La Voce’ è una rivista di ampia diffusione e di grande comprensione a più menti, nel 1913, insieme ad Ardengo Soffici, fonda un’altra rivista, decisamente di rottura, ovvero "Lacerba". Il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti ha fatto breccia tra gli intellettuali dell’epoca e "Lacerba" stessa diventa espressione del movimento fiorentino. In questa stagione scrive le "Stroncature", con cui si sbizzarrisce a demolire i classici come Goethe, Boccaccio o Shakespeare, esaltando l’avanguardia letteraria. Quando scoppia la prima guerra mondiale si schierò per l'intervento italiano come tutti i futuristi. Proprio un suo articolo, “Amiamo la guerra”, diventa un manifesto simbolico di questo pensiero. “Finalmente – scrive - è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. (...) La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi”. Parole che oggi lascerebbero di stucco qualsiasi cittadino, ma che in realtà, all’epoca, erano una fotografia di una parte della generazione italiana che voleva cambiare tutto, scombinare i piani, rimettere in gioco l’Italia nelle sue gerarchie più profonde.

Il pensiero che la guerra servisse per far saltare in aria il panorama politico nato sull’Italia liberale giolittiana e borghese, per intenderci, non era solo dei futuristi, ma anche di una parte dell’area socialista, repubblicana, antimonarchica. I futuristi partirono per la trincea, alcuni perirono pagando la propria scelta sul campo. Papini venne riformato. Non poté arruolarsi. I suoi problemi di vista gli evitarono il fronte. Il suo carattere polemico lo portò a troncare con i futuristi milanesi (Marinetti). Il 22 maggio 1915 chiuse la rivista pochi giorni prima dell'entrata dell'Italia in guerra. Più tardi si pentì di quel suo schierarsi a favore del conflitto bellico, definendolo “un immane sciupio di sangue e di anime”.

Si dà alla poesia e alla scrittura con talento. "Cento pagine di poesia" e "Opera prima”. Un decisa metamorfosi, in realtà, era già in atto nel 1913 con “Un uomo finito", autobiografia in cui emerge una prima ricerca religiosa. Il giovane Mircea Eliade dedicò a questa lettura un capitolo del romanzo giovanile pubblicato postumo, ‘Il romanzo dell'adolescente miope’.

Poi arrivò la svolta esistenziale. Nel 1921 Papini annuncia la sua conversione e pubblica "Storia di Cristo". Sarà poi la volta di "Sant'Agostino" (1929). Papini si rivedeva nella figura del religioso, anche per la conversione in età matura e dopo una esistenza irrequieta. “Gli somigliavo, si capisce, nel peggio, ma insomma gli somigliavo. E che un uomo a quel modo, così vicino a me nelle debolezze, fosse arrivato a rinascere e a rifarsi mi rincorava”. Poi venne "Dante vivo" (1933) e "Lettere agli uomini di Celestino VI" (1946), ove descrisse il messaggio di un Pontefice immaginario a tutti gli uomini, attraverso una rinascita spirituale e sociale dell'umanità di ispirazione cristiana. Quindi "Il diavolo" (1953). Scritti che saranno anche criticati e contestati, ma senza mai passare inosservati.

Durante il regime fascista Papini è nominato accademico d'Italia, ottiene la direzione di un Istituto di studi sul rinascimento, la direzione della rivista "La Rinascita".

Figurò tra i firmatari del Manifesto della razza nel 1938.Lui che fu ex futurista, in un movimento in cui gli ebrei o la diversità religiosa non facevano neanche dibattito, lui che fu amico di Marinetti, notoriamente avverso alle leggi razziali, si infilò dentro l’accettazione di una misura abominevole e drammatica. Non fu l’unico, in un contesto culturale che spesso non si ribellò a un simile provvedimento o rimase silente. ‘La Difesa della Razza” riportò le firme (oltre a gerarchi o esponenti del regime) di Amintore Fanfani e Giovanni Spadolini.

Tuttavia, sulle pagine del periodico Il Frontespizio, con l'articolo Razzia dei Razzisti (1934), si era dichiarato distante da ogni discriminazione razziale e dal razzismo scientifico. Nell'articolo Papini affermava: "I razzisti all'ingrosso van cicalando di razze come se l'etnologia fosse una scienza precisa e certa quanto la geometria. Dove mai riposa e scorre il puro sangue ariano in nome del quale codesti vociatori perseguitano gli Ebrei e decretano l'incurabile decadenza del 'caos etnico' dei popoli neolatini? Il Razzismo non è che una camuffatura - col cenciume di scienza sbagliata e di storia falsificata - della eterna superbia germanica".

E’ il tempo storico prima dell’alleanza con Hitler. In seguito Papini prenderà le distanze dalla sua presa di posizione.

Nel 1942 andò a Weimar per il congresso dell'Unione Europea degli Scrittori. Portò le sue idee sul cattolicesimo universale e civilizzatore dei popoli, sottolineando il primato culturale italiano sull’Europa. Parole che trovarono critiche negli ambienti nazionalsocialisti. Durante il secondo conflitto mondiale si fece terziario francescano con il nome di ‘Fra' Bonaventura’ nel convento della Verna. Rifiutò la nomina a Presidente dell'Accademia della Repubblica Sociale Italiana in sostituzione di Giovanni Gentile, assassinato. Per lo scrittore iniziarono anni duri. L'Italia che aveva sconfitto il fascismo lo aveva bollato.

Continuò a scrivere. Nel 1953 uscì “Il Diavolo”, un saggio religioso che propose le sue tesi su Satana. L'opera venne inserita nell'Indice dei libri proibiti dalla Chiesa. Nel testo, dai toni provocatori, il Diavolo, inteso come incarnazione del Male, l'angelo che si è ribellato a Dio ed è finito nell'abisso degli inferi, viene salvato e perdonato dalla Divina misericordia. L’oblio culturale dello scrittore si interrompe nel 1958, quando gli venne conferito il premio "La penna d'oro" alla memoria dalla Presidenza del Consiglio. L’8 Luglio del 1956 a Firenze aveva lasciato la vita terrena.

Fino all'ultimo tentò di lavorare al testo del "Giudizio universale", opera che addirittura risaliva nei prodromi al 1903 e che non riuscirà a terminare. Quando morì, il Premio Nobel Eugenio Montale (Leggi: Preferire i ragazzi che cercano, nelle pozzanghere, qualche sparuta anguilla. Eugenio Montale e la sua poesia) commentò la dipartita dello scrittore con le seguenti parole: "Una figura unica, insostituibile, a cui tutti dobbiamo qualcosa di noi stessi".

Uomo controverso, Papini della carta stampata fece la sua trincea. George Luis Borges sentenziò: “Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato”. Henry Miller, che lo stimava, di lui disse dopo la lettura ‘Un uomo finito: “Occorreva qualcosa per rimettermi in accordo con me stesso. Ieri sera l'ho scoperta: Papini. A me non importa se è sciovinista, o un meschino bigotto o un pedante di vista corta. Come fallito è una meraviglia”. Antonio Gramsci di scrisse che era un “polemista «puro», il boxeur di professione della parola qualsiasi”.

Un giorno lo stesso Papini scrisse: “Ci sono di quelli che non dicono nulla ma lo dicono bene. Ce ne sono altri che dicono molto, ma lo dicono male. I peggiori son quelli che non dicono nulla e lo dicono male”. Ecco, Papini non appartenne mai all’ultima categoria. Davvero la peggiore.